23. Picnic
Ieri mio figlio ed io siamo andati a fare un picnic. Mia moglie lavorava, mia figlia era a scuola e noi abbiamo deciso all’ultimo.
Un picnic è un’attività che amo sempre perché mescola un non so che di outdoor addomesticato, un approccio vagamente estetizzante, fatto di plaid gettati per terra e vaschette ermetiche, e tutta la preparazione, che è sempre ricca di attesa.
Questa newsletter si chiama Vulnerabile e racconta - da genitore e prima ancora da persona - il rapporto con mio figlio.
Lui ha una malattia genetica rarissima che causa una disabilità psicomotoria grave. Fa tante cose che appaiono complesse, ma altre, più semplici, restano sfide enormi.
Vulnerabile esce di sabato, che è il nostro momento insieme. O almeno vorrei che lo fosse.
Così ci siamo organizzati al meglio: pasta fredda col pomodoro fresco e il basilico, polpette vegetariane, pane, banana, birra (per me), tanta acqua. Abbiamo inscatolato tutto per bene, preso un pallone e una specie di giavellotto della Nerf che, una volta lanciato, emette un sibilo ben distinguibile (chi ha figli piccoli e un po’ vivaci sa quanto i prodotti Nerf siano oggetti del desiderio).
Siamo saliti in auto, alla volta del Parco della Vernavola di Pavia, una grande area verde in città, ma dall’atmosfera non molto cittadina.
“Ho fame”. “A che ora il picnic?”. “Il picnic quando?”. “Ho fame”.
Questo il tenore della discussione nella mezz’ora di viaggio.
Una volta arrivati, dopo una passeggiata di dieci minuti, abbiamo guadagnato un posto all’ombra, steso la coperta e iniziato a mangiare. A mano a mano che terminavamo le portate, sistemavo le vaschette, in modo da non perdere nulla e avere tutto in ordine da subito. In questi casi io stesso mi chiedo cosa potrebbe succedere se lasciassi i contenitori ribaltati in malo modo sull’erba, recuperandoli dopo.
Una volta pranzato, ci siamo alzati e lui ha preso la palla. Prima ha provato a calciarla, poi - sentendosi evidentemente malcerto sulle gambe - ha iniziato a tirarmela con le mani. Forse tre o quattro volte.
Poi, di colpo, basta.
“Adesso andiamo”.
“Ma in che senso, dove?”.
“No, no, no, andiamo”.
Ha riaperto il sacchetto dei giochi, rimesso dentro il pallone, sollevato la coperta porgendomela (“Tieni, porti tu”) e via.
In questi casi non insisto. Provo, semmai, a sviare l’attenzione nella speranza che si dimentichi della sua determinazione, consentendoci di tornare indietro. La tecnica non ha funzionato e ho dovuto piegare la coperta mentre eravamo già in cammino.
“Vetro, dove?” (dove buttiamo il vetro, ndr) mi ha chiesto indicando la bottiglia di birra a metà.
Evidentemente non sono il solo che, di fronte all’imprevedibilità, cerca di ritrovare la calma delle norme.
Ci vediamo sabato prossimo.



Be', lasciando perdere una fastidiosa quanto inutile didattica (cosa eventualmente si apprende da questa attività) rimane una bella foto, che starebbe bene in una rivista, alla pagina "Shopping cucina" o "Picnic di primavera". Sono sicura che anche Stefano, sfogliando la rivista e mostrandola a tutti, la apprezzerebbe e annuncerebbe con entusiasmo: "Ah! Sono andato! Fatto il picnic con papà!"
😍
Ci insegnano a riconoscere le difficoltà di transizione e a preparare con cura ogni passaggio – anticipazione visiva, spiegazione delle tempistiche – ma poi bisogna trovarsi nelle situazioni di "vita vissute" ed è così: a volte, anche con un po' di magone si torna indietro,.... bisogna riconoscere che anche quel piccolo passo ha avuto un valore e ... almeno a noi accade così, il risultato di quel passo è possibile che sia visibile anche dopo mesi!