Scrivo questo numero di Vulnerabile dopo giorni intensi trascorsi tra cibo, dolci e regali, in un clima festoso che è stato al tempo stesso coinvolgente e stancante. Siamo a poche ore dalla partenza per Dynamo Camp, un luogo speciale dedicato a minori con patologie gravi o croniche, dove la terapia ricreativa diventa un’esperienza condivisa anche per le famiglie. Qui non solo i piccoli vivono momenti di gioia e leggerezza, ma l’intero nucleo familiare viene coinvolto in attività pensate per rafforzare legami e resilienza.
Ne scriverò sicuramente al ritorno.
Questa newsletter si chiama Vulnerabile e racconta - da genitore e prima ancora da persona - il rapporto con mio figlio.
Lui ha una malattia genetica rarissima che causa una disabilità psicomotoria grave. Fa tante cose che appaiono complesse, ma altre, più semplici, restano sfide enormi.
Vulnerabile esce di sabato, che è il nostro momento insieme. O almeno vorrei che lo fosse.
Tra le ritualità del Natale, che sono state più o meno quelle descritte nel numero precedente, ho riflettuto su un tema che riguarda mio figlio e chiunque interagisca con lui: la percezione della sua età.
Lo consideriamo un bambino. Probabilmente lo faremo ancora a lungo. Il suo significativo ritardo dello sviluppo lo porta a interessarsi a giochi, attività e film che solitamente attirano i più piccoli.
Ma ha 12 anni. È in grado di sostenere una conversazione senza bisogno di semplificazioni infantili o il cosiddetto babytalk. Possiamo chiedergli, per esempio, se ha dolore e dove, senza ricorrere a espressioni come "bua" o toni melliflui. E quando andiamo a fare commissioni insieme, cerchiamo di viverla come un’esperienza da pari, nella misura del possibile.
Questo mi porta a riflettere su un fenomeno diffuso: l’infantilizzazione delle persone con disabilità. Trattarle come bambini, anche quando non lo sono, significa spesso ridurre la loro autonomia e limitarne l’esperienza del mondo adulto. È un atteggiamento radicato in una visione abilista che percepisce le persone con fragilità come incapaci di autodeterminarsi.
Mio figlio ne è vittima, così come molti anziani, ad esempio, nelle RSA, dove i caregiver passano improvvisamente a dare del tu, senza mai chiedere se questo grado di confidenza sia apprezzato.
Con mio figlio cerco sempre di mantenere un comportamento rispettoso della sua età, coinvolgendolo nelle attività quotidiane e adattando le richieste alle sue capacità. Al contrario, mi rendo conto che a volte esagero nel trattarlo da adulto, dimenticando di calibrare meglio le mie aspettative.
Su questo lavorerò sicuramente nel 2025.
La sfida più grande, tuttavia, è immaginare un percorso di crescita che lo riconosca non solo come un bambino da proteggere, né - peggio - come un “angelo” fragile, ma come una persona da sostenere, con le sue inclinazioni e potenzialità.
Riprendere le parole del pedagogista Mario Tortello, “Pensami adulto”, mi offre una prospettiva preziosa: garantire a ogni minore, indipendentemente dalle sue condizioni, la possibilità di crescere, esplorare e costruire un’identità che sia autenticamente sua.
Approfondimenti
Segnalo due guide interessanti sul tema del linguaggio inclusivo, che forniscono uno spaccato sull’evoluzione della sensibilità e danno indicazioni su come sarebbe opportuno parlare di disabilità. Attraverso il linguaggio si plasma il pensiero e, quindi, gradualmente, la cultura.
La prima è quella di Anffas, l’associazione dedicata alla tutela dei diritti delle famiglie e delle persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo, e si scarica qui.
La seconda è quella di Fondazione Diversity, che dal 2013 si impegna a promuovere la cultura dell'inclusione e a valorizzare le differenze come risorse preziose per le persone e le aziende, e si può richiedere qui.
Ci vediamo sabato prossimo.
Auguri al Dynamo!
Grazie Davide. Hai ragione, serve una riflessione paritetica. Buon Dynamo ❤️ E Buon anno