Intanto buon anno! Iniziamo con un numero più lungo del solito, perché ho diverse cose da raccontare, spero sia ok ugualmente.
Come scrivevo la scorsa settimana, siamo stati qualche giorno a Dynamo Camp. Mia moglie e una sua collega hanno presentato là un progetto di ricerca per misurare l’impatto della terapia ricreativa sul benessere delle famiglie che hanno figli con disabilità o patologie croniche, che richiede la raccolta di diversi dati.
Questo ci ha dato l’opportunità di vivere l’esperienza Dynamo per un giorno e mezzo pieno. Pieno soprattutto di ricordi che tuttora rievochiamo. Per scherzare, per riparlarne, per fare ancora un sorriso. Non poco.
Questa newsletter si chiama Vulnerabile e racconta - da genitore e prima ancora da persona - il rapporto con mio figlio.
Lui ha una malattia genetica rarissima che causa una disabilità psicomotoria grave. Fa tante cose che appaiono complesse, ma altre, più semplici, restano sfide enormi.
Vulnerabile esce di sabato, che è il nostro momento insieme. O almeno vorrei che lo fosse.
Che cosa è e cosa fa
Dynamo Camp è un'organizzazione no-profit che offre esperienze di vacanza a bambini e ragazzi con disabilità o malattie. Attraverso attività ricreative, favorisce il loro benessere psicologico, garantendo momenti di svago e inclusione e supportandone la crescita personale.
Forse non tutti sanno che questo format è nato da un’intuizione di Paul Newman, fondatore dell'associazione Hole in The Wall Camps. Nel 2007, l’attore ha sostenuto la creazione di Dynamo Camp in Italia, ispirato dall’idea di costruire un ambiente sicuro e divertente per i bambini affetti da patologie gravi o croniche.
Giorno 1
L’obiettivo principale di Dynamo Camp è “solo” far star bene i bambini, i ragazzi e le loro famiglie. Con noi ci sono assolutamente riusciti.
Arriviamo nel pomeriggio di sabato 28 dicembre. Il primo impatto è con un ambiente bello. Chi è abituato ai corridoi male illuminati delle ASL o dei centri riabilitazione lo nota subito. Appena messo piede dentro si attiva la modalità entusiasmo. Le persone che troviamo (a occhio ben più di una per ospite) si mostrano non solo accoglienti e, ovviamente, inclusive, ma proprio contente di vederci. Ognuno ha un cartellino con il nome. Mio figlio che ha l’abitudine di chiedere con insistenza a chiunque “come ti chiami?” trova pane per i suoi denti, senza che mia moglie ed io ci attiviamo in modo arcigno nel dire “aspetta, non disturbare che sta…”.
Tutti disturbabili, tutti sorridenti, tutti con un badge pronto per essere letto e commentato.
Nonostante questo, ogni tanto mio figlio fa confusione, forse preso dall’entusiasmo: “Come ti chiami?”. “Marco”. “Uh, come lo zio Paolo”. Ecco.
Ci sistemiamo nelle stanze: sono davvero belle e hanno 4 letti ampi. Questo non mi aiuterà a dormire bene, ma il mio è un caso di insonnia con poche speranze.
Prima di cena si battono le mani sui tavoli eseguendo il rito del “buon appetito ragazzi”. Un po’ convention, un po’ villaggio, un po’ caserma. Tutti luoghi (fisici o metaforici) che ho frequentato e amato poco, ma la cerimonia, in questo ambiente così peculiare, scarica le tensioni, libera le energie e fissa le aspettative: questo è un luogo dove si può stare bene.
Ceniamo e giriamo per i tavoli in modo disordinato, chiedendo a tutti il nome. Facciamo quello che in un ristorante non potremmo: ad esempio sparecchiare, provare ad entrare in cucina, fare amicizia con gli avventori.
Balletti finali, spettacolo in teatro, programma della giornata seguente e tutti a letto.
Giorno 2
Iniziamo la giornata consapevoli di avere un programma fitto di appuntamenti: mattina circo e radio, pomeriggio piscina. Mio figlio ed io ci alziamo come sempre per primi.
“Idea! - dice lui - andiamo a bussare alle stanze”. “Meglio di no, dormiranno ancora, facciamo piuttosto una passeggiata”.
La mattina è di grande successo: provare a fare il giocoliere lo diverte molto, così come simulare una trasmissione radio. Abbiamo diversi format a disposizione: oroscopo, cucina, sport, meteo. Scegliamo cucina e inventiamo un’intervista con un grande chef (lui) che spiega come fare la pasta al pesto. La versione dello chef è semplificata e prevede di rovesciare un vasetto di pesto industriale sulla pasta una volta cotta.
Il pomeriggio con la piscina andiamo meno d’accordo. Lui mette a volte i piedi nell’acqua tiepida, ma ha sostanzialmente paura. Mia figlia ed io ce la godiamo partecipando alle attività, mentre mia moglie cerca di convincere lui ad entrare. A un certo punto intervengo io con la presunzione che abbiamo noi genitori quando pensiamo che cambiando approccio cambi in modo radicale tutto. Invece niente. In acqua non entrerà mai; noi, infreddoliti, gettiamo la spugna.
Doccia, cambio, cena, balletti finali, spettacolo in teatro, programma della giornata seguente e tutti a letto.
Giorno 3
Alla mattina abbiamo la palestra di roccia. Un modo talmente assurdo e ambizioso di far divertire dei minori con disabilità da essere assolutamente efficace. Durante la breve introduzione, scopriamo che una delle istruttrici aveva già conosciuto mio figlio la sera prima, a teatro. Lui le aveva detto di chiamarsi Davide.
Ci imbraghiamo tutti, tranne lui, che accetta solo di mettersi il casco, ma che non vorrà mai salire. Abbiamo a volte il sospetto che soffra di vertigini, certamente non si lancia volentieri fuori dalla sua zona di comfort. Nemmeno io per anni l’ho fatto.
Oggi cerco di dimostrare a me stesso di non averne una, di zona di comfort. Quindi mi faccio imbragare e inizio subito con la parete più semplice. Conosco i miei limiti e a metà dell’arrampicata dico: “Io mi fermerei qui”. Scendo rimbalzando e ben ancorato alle corde.
Mio figlio è a terra, che fa il tifo. Anzi, il “fito”.
Ultimamente ha difficoltà a pronunciare i bisillabi con una effe. “Afat” invece di “afta”, “fito” invece di “tifo”, “fucchie” invece di “cuffie” e così via.
Mia figlia inanella anche le due pareti più difficili, con scioltezza e i sorrisi che io a 17 anni - sbagliando - non sono stato in grado di concedermi.
Mi cimento, tuttavia, con un secondo giro, lasciato a metà. “Lo so che è tutta psicologia” dico all’istruttrice (quella che pensava che mio figlio si chiamasse come me). Però scendo.

“Buon appetito ragazzi”, pranzo, ultime chiacchiere, baci e abbracci con persone che per un periodo breve ci hanno accompagnato in modo così intenso e siamo di nuovo in auto per Milano.
L’Appenino tosco-emiliano è illuminato da una luce calda e meravigliosa.
Mio figlio e mia moglie sonnecchiano. Ascolto la radio e a volte faccio dei quiz sulle canzoni a mia figlia: “Questa devi sapere di chi è”. Mi stupisco che non riconosca i Talking Heads, ma che identifichi facilmente i Beatles.
3 cose che penso
L’esperienza mi ha lasciato tanto e ancora oggi ci ripenso sovente. Ecco quindi alcune considerazioni, non conclusive, ma ancora in fase di maturazione.
Leadership, dell’organizzazione: qui l’occhio del padre si salda a quello del consulente e riconosce che per far funzionare un apparato simile in modo così armonioso serve una leadership solida e diffusa. Mi verrebbe da dire che la solidità sta proprio nella sua diffusione. Tutti sanno cosa devono fare, interpretano il proprio ruolo in maniera coerente, ma non rigida. Immagino le riunioni, le procedure, le infinite iterazioni di un modello che deve funzionare a fronte di una elevatissima complessità e variabilità degli input e con un numero importante di volontari. Un grandissimo lavoro, ma un risultato incredibile.
Leadership, di mio figlio. Ci era stato già detto alle scuole elementari e a Dynamo Camp me ne sono reso conto ancor di più. Lui è dotato di una leadership naturale e potentissima. Entra nei contesti destrutturati, li ristruttura, attribuendo ruoli alle persone (”Idea, tu fai…”), si relaziona con gli adulti in modo efficace, comunicando le sue esigenze e “forzando” delle risposte (tipicamente quelle che vuole lui), derubrica i riscontri negativi degli altri, dispensa un entusiasmo contagioso in modo costante. Lo seguono. Grandi e piccoli lo seguono.
Si può fare. Il sogno più nascosto di noi genitori di figli con una disabilità è che esista un mondo in cui possano essere sé stessi, muoversi in libertà e realizzare un proprio ideale di vita. Lì ho visto questa possibilità. Lì ho sognato mio figlio in una dimensione anche adulta e lavorativa, inserito in un contesto in cui si possa sentire valorizzato nelle sue caratteristiche di entusiasmo e di caparbietà. Lì ho visto decine di bambini e ragazzi effettivamente felici. Questa non può essere solo una parentesi in vite fatte di terapie, difficoltà e sofferenze. Questo deve essere lo standard a cui dobbiamo aspirare.
Grazie per avermi seguito fin qui. Ci sentiamo sabato prossimo.
Buon anno Davide, bello sarebbe trovare un po' di questa naturalezza nei teambuilding aziendali! Con tutte le cautele del caso ho quasi invidiato la possibilità di dire "no grazie, non mi piace, non lo faccio" di Davide jr (😉). Ci sono riuscita solo una volta in vita mia, pretendevano che giocassi a rugby in una squadra con un numero infinito di maschietti e solo 2 donne. Io mi sono salvata, la mia collega è finita con un orecchio strappato e una caviglia fuori uso. Quindi viva la forza di scegliere anche quando siamo sotto i riflettori!!! Ottimo buon proposito per l'anno che è appena iniziato! 😇
Il post mi ha davvero colpito; mi sembra un inizio di anno promettente!
Un grande abbraccio e grazie Davide