“Scusa, a che ora il bus?”
Siamo alla fermata della 46 (mi chiedo sempre perché a Milano parliamo delle linee degli autobus al femminile, mentre a Roma ne parlano al maschile).
Questa newsletter si chiama Vulnerabile e racconta - da genitore e prima ancora da persona - il rapporto con mio figlio.
Lui ha una malattia genetica rarissima che causa una disabilità psicomotoria grave. Fa tante cose che appaiono complesse, ma altre, più semplici, restano sfide enormi.
Vulnerabile esce di sabato, che è il nostro momento insieme. O almeno vorrei che lo fosse.
Dicevamo.
Mio figlio ed io siamo alla fermata dell’autobus e lui cerca di scorgere impaziente se arrivi. Il tempo per lui è più un’idea che una misura, perciò dirgli “solo 3 minuti” o “12 minuti” non fa molta differenza. Guarderà sempre verso la curva.
Ultimamente, però, quando lo convinco che manca tanto all’arrivo, propone lui stesso di camminare fino alla fermata successiva per non stare con le mani in mano. In genere accade quando, ad attenderlo, non c’è nessuno con cui possa parlare e a cui fare una serie di domande.
“A che ora il bus?”. “Verde o arancione?”. “Perché verde?”. “Dove vai?”
Non è importante la risposta, ma il chiedere. Chiedere è il punto. Infatti spesso reitera le stesse domande alle stesse persone. Che, in genere, fortunatamente, non si spazientiscono e, anzi, interagiscono con lui.
Gli piace moltissimo andare con l’autobus, tanto che spesso lo inseriamo nel nostro programma della giornata, che annotiamo sulla board del weekend.
Durante la settimana, di solito ci va con il nonno, che si presta a fare giri lunghi e un po’ noiosi da un capolinea all’altro. Conosce tutti i conducenti della linea, che a loro volta conoscono lui e spesso lo salutano con un breve segnale di clacson quando lo incontrano lungo la strada.
“Oggi c’era un nuovo capitano [autista, ndr]” ci ha detto ieri sera a cena. Anche questa è una notizia.
Io, invece, lo accompagno di rado. Non perché non mi piaccia l’idea, so che è contento. Il problema, forse, è che perdo un po’ il controllo. Incontriamo tante persone, tutte interessanti, e lui vuole fare domande a tutte. Una grande fatica di mediazione per me. Ma soprattutto, non mi piace l’idea di trovarmi, dopo un’ora, dall’altro capo della città senza un piano per il ritorno. Il rischio è che, per ragioni non prevedibili, si impunti e decida di esplorare un quartiere a Nord, mentre noi dovremmo tornare a Sud. E magari, poi, sia troppo stanco per riprendere i mezzi che ci hanno portato fin lì.
Mi rendo conto che per me il viaggio, anche se breve, non è tanto perdersi con spontaneità, quanto un modo per costruire consapevolezza.
Tuttavia, ogni tanto, qualcosa mi tira per la manica e mi fa dubitare di tutta questa struttura che ho bisogno di dare anche a banali percorsi urbani.
Se vi capita di rimanere presi nella trappola della rigidità dei valori, dovete rallentare il vostro ritmo - tanto dovrete rallentare comunque, vi piaccia o no - e percorrere un terreno che già conoscete per vedere se ciò che giudicavate importante lo era davvero e per… be’… per guardare la macchina. Non c’è niente di male, in questo […] E dopo un po’, sicuro come l’oro, qualcosa vi tirerà per la manica, un fatto minuscolo che vi chiede umilmente e timidamente se vi può interessare.
Robert M. Pirsig, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Milano, 1981
Ci vediamo sabato prossimo.
A margine
Nel numero precedente avevo parlato dell’idea del presidente argentino di sdoganare termini gravemente offensivi per indicare le persone con disabilità (“idiota”, “imbecille” eccetera). Ebbene, fortunatamente, dopo proteste e campagne da parte di associazioni, Milei cancella la norma. Indovinate? Si è trattato di un errore. La scusa per qualsiasi turpe scelta che vuole testare la nostra capacità di tolleranza.
Durante un convegno sulla genitorialità uno psicologo (di cui non ricordo il nome) disse che i figli cambiano i genitori più di quanto i genitori riescano a cambiare i figli. Questo costringerci a continui cambi di prospettiva è faticoso ma se ci mettiamo in contatto con noi stessi, chiedendoci perché è cosi faticoso scopriamo molto, moltissimo di noi stessi. Insomma quello che per qualcuno è solo un giro in bus, per qualcun altro può essere l'occasione per un viaggio interiore. In entrambi i casi l'importante è farsi trovare col biglietto vidimato!
Baci buon week end :-)
Grazie a lei e a Stefano. Tutti dovremmo avere la fortuna di incontrare un giovane Stefano ad un angolo di strada, così per caso, che ci faccia domande…